5 Ottobre 2022: Giornata Mondiale dell'Insegnante

Scuola retrò

Mercoledì 5 Ottobre 2022 si celebra la giornata mondiale degli insegnanti (nota anche come “Giornata internazionale degli insegnanti”). In tale data vengono omaggiate le organizzazioni di insegnanti in tutto il mondo. Il fine è quello di mobilitare il sostegno ai docenti e di garantire alle future generazioni standard adeguati di insegnamento.
“La Paura è un'incostante Tristezza nata dall'idea di una cosa futura o passata, del cui esito in una certa misura dubitiamo. Non esiste Speranza senza Paura e Paura senza Speranza.”
(Baruch Spinoza, Ethica. Def. Af. 13)
Sono un uomo di scuola e penso che educare i giovani sia un privilegio. I giovani mi hanno aiutato a vivere, a diventare ciò che oggi sono nel bene e nel male, a comprendere e non giudicare, a studiare. Gli studenti che ho educato mi hanno insegnato l’ascolto, l’attenzione che si deve all’altro, i rischi del pregiudizio…
Qualcuno obietterà che compito della scuola non è prendersi cura dei fattori emotivi. In realtà non esiste apprendimento senza gratificazione emotiva. Senza cuore non si realizza nulla.
Cari docenti non possiamo restare neutri. Dobbiamo sporcarci le mani. L'adolescenza, e noi lavoriamo di solito con gli adolescenti, è caratterizzata da ansia, incertezza, frainteso senso della libertà, malinconia. Tutto ciò è inquietante, ci può spiazzare, ci mette in difficoltà perché l'adolescente ci ricorda ciò che eravamo e che spesso abbiamo rimosso in nome del principio di realtà. Non possiamo affrontare la malinconia dei giovani con intento consolatorio. Questo non ci verrà perdonato. Ricordiamoci che spesso il malinconico esprime una verità sull'esistenza che noi adulti nascondiamo con l'euforia. Anche noi spesso siamo malinconici, ma seppelliamo questo sentimento sotto la coltre dell'esistenza inautentica. La grande difficoltà del nostro mestiere consiste nel conciliare attenzione verso i giovani con la giusta severità che occorre nell'educare, senza tentennamenti verso facili e pelosi buonismi o posizioni di chiusura che portano soltanto a tragedie adolescenziali. Non è semplice. Occorrono alcuni requisiti: grande cultura, passione, amore verso i giovani, equilibrio e carattere fermo…
La figura principe dell'intellettuale borghese è Friederich Nietzsche, dal momento che tutta la sua opera è la realizzazione della nuova figura di intellettuale che critica un sistema di valori e che prende coscienza dell'impossibilità di fondare la propria attività su un sistema fissista. Con lui inizia la teoria che lega la decadenza dell'intellettuale alla crisi della civiltà capitalistico-borghese. Oswald Spengler piuttosto che José Ortega y Gasset, per non parlare di Thomas Mann o Benedetto Croce. Thomas Mann, disilluso dalla prima guerra mondiale, continua a difendere la contrapposizione tra Kultur e civilisation, tra romanticismo e illuminismo, tra mondo tedesco e mondo francese all'interno dello sviluppo del capitalismo moderno. Soltanto in seguito si convince che la sua aristocratica concezione della Kultur forse può convivere con la democratica Repubblica di Weimar. Di fronte alla barbarie nazista anche il grande intellettuale isolato, conservatore e atarassico può interpretare il ruolo di difensore dell'ordine democratico. Julien Benda parlerà di Tradimento dei chierici denunciando gli intellettuali di aver abbassato la guardia di fronte all'emergere dei totalitarismi. Il più lucido è probabilmente Max Weber che comprende come il professionismo intellettuale sia un obbligo imposto dalle nuove esigenze di sviluppo del lavoro: “Il puritano volle essere un professionista, noi dobbiamo esserlo. Poiché in quanto l'ascesi fu portata dalle celle dei monaci nella vita professionale e cominciò a dominare la moralità laica, essa cooperò per la sua parte alla costruzione di quel potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato consumato l'ultimo quintale di carbon fossile, lo stile della vita di ogni individuo, che nasce in questo ingranaggio, e non soltanto di chi prende parte all'attività puramente economica.” (L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, pp. 304-305)
Max Weber comprende l'imprescindibile vocazione alla specializzazione dell'intellettuale moderno. La risposta alla crisi dei valori è, per l'intellettuale borghese, l'ascesi. Ma questa ascesi provoca domande, inquietudini ed essa è un metodo di lavoro, un abito, un atteggiamento. Ascesi dell'intellettuale borghese e impegno dell'intellettuale militante non sono le uniche posizioni. Oggi esistono centri collettivi di elaborazione e produzione intellettuale. Pensiamo ai grandi laboratori scientifici della ricerca spaziale e astronautica o della medicina, della fisica, dell'elettronica. Pensiamo ai grandi studi dell'urbanistica o agli staff di economisti. Siamo di fronte alla ristrutturazione del lavoro intellettuale coerentemente con una teoria più generale di trasformazione politica e sociale della quale i confini non sono ancora chiarissimi. Procedure automatizzate ed intellettuale collettivo procedono di pari passo. Così come la macchina svalutò il lavoro delle braccia umane, oggi la cibernetica e l'automazione svalutano il lavoro del cervello umano, almeno nelle decisioni semplici. Probabilmente come l'artigiano esperto e molto bravo è sopravvissuto alla macchina, così lo scienziato esperto e capace sopravviverà alla cibernetica e all'automazione. Si aprirà però uno iato sempre maggiore tra un ristretto strato di qualificati e l'enorme massa dei dequalificati.
Marciamo verso l'utopia tecnologica nella quale gli intellettuali si vedrebbero riassorbiti in un unico fondamentale modello di programmazione lineare e di incondizionata accettazione del meccanismo tecnico-economico-amministrativo di cui parlava Max Weber. Se debba essere questo il destino degli intellettuali e quindi delle università, tradizionalmente luoghi dove vengono formati gli intellettuali, è un problema la cui soluzione spetterà ai decisori politici…
È finito un paradigma detto modernità e che dura da cinque secoli, infatti la modernità nasce nel quattrocento, con l'Umanesimo, dove per Uomo si intende l'uomo occidentale. Gli altri uomini non vengono ritenuti tali. Basta leggere Tzvetan Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell'altro, per rendersi conto dei massacri ai danni delle popolazioni indigene, dovuti essenzialmente ad una presunta superiorità culturale dell'uomo occidentale. La colpa dell'Occidente è ancora oggi quella di scambiare la parte con il tutto, di chi non riesce a collocare l'orizzonte dell'umanità oltre il proprio particolare. Secondo Freud l'unica possibilità di salvezza dell'uomo occidentale consiste in una mutazione psichica che sottometta Thánatos a Éros. Senza questa capacità il governo mondiale dell'Occidente (dove per Occidente si intendono anche gli Stati Uniti d'America) si ergerà come un faro; purtroppo, come scrive Ernst Bloch, ai piedi del faro non c'è luce.
Tutto ciò ha ripercussioni pesanti sulla scuola dei paesi occidentali. Essa non riesce a comprendere sino in fondo ciò che sta accadendo: multiculturalità, globalizzazione, meticciato. La scuola italiana è tra le più arretrate in questo processo di mutamento…
La domanda cruciale è: “Che cosa autorizza un uomo o una donna a istruire un altro essere umano? Dove risiede la fonte dell’autorità dell’insegnamento?” Iniziamo con una evidente verità da troppi taciuta e occultata: l’insegnamento autentico è una vocazione. Ė una chiamata. Rabbi, in ebraico, significa insegnante. Questo ci rammenta una dignità immemoriale. Ai suoi livelli più elementari – che in realtà non sono mai tali – come, ad esempio, l’istruzione dei bambini piccoli, dei sordomuti, dei ritardati mentali, o invece ai livelli massimi, ai vertici dei luoghi deputati alle arti, alle scienze e alla filosofia, l’autentico insegnamento scaturisce da una convocazione. “Perché mi chiami, che cosa vorresti che io facessi?” chiede il profeta alla voce chiamante, o domanda l’illuminista alla propria coscienza. L’insegnante è cosciente della bellezza e del mistero della sua professione, di ciò che ha professato in un giuramento ippocratico mai pronunciato. Ha preso i voti. Sequar ora moventem/Rite deum Delphosque meos ipsumque recludam (asseconderò il dio e schiuderò la Delfi che è in me). Così l’oracolo. I pericoli però sono commisurati all’esultanza. Educare seriamente significa toccare la parte più vitale di un essere umano. Significa cercare la strada verso l’integrità più intima di una persona. “Un maestro invade, dischiude, può anche distruggere per purificare e ricostruire. Un insegnamento scadente, una pedagogia di routine, uno stile di istruzione che è, consapevolmente o meno, cinico nei suoi obiettivi meramente utilitari, sono rovinosi. Distruggono la speranza alle radici. Un insegnamento di cattiva qualità è, quasi letteralmente, un assassinio e, metaforicamente, un peccato. Immiserisce lo studente, riduce a grigia inanità la materia insegnata. Insinua nella sensibilità del bambino o dell’adulto il più corrosivo degli acidi, la noia, le esalazioni dell’ennui. Un insegnamento morto, esercitato dalla mediocrità forse inconsciamente vendicativa di pedagoghi frustrati, ha ucciso per milioni di persone la matematica, la poesia, il pensiero logico. Gli schizzi di Molière sono implacabili. L’anti-insegnamento è statisticamente quasi la norma. Insegnanti eccellenti, capaci di accendere un fuoco nelle anime nascenti dei loro allievi sono forse più rari degli artisti virtuosi o dei saggi. Maestri di scuola, allenatori di mente e corpo, consapevoli della posta in gioco, del rapporto tra fiducia e vulnerabilità, della fusione organica tra responsabilità e risposta (respondibilità, answerability) sono pericolosamente rari. Ovidio ci ricorda che non c’è mistero più grande. In realtà, come sappiamo, la maggioranza di coloro ai quali affidiamo i nostri bambini nell’educazione secondaria, a cui guardiamo perché siano di guida e di esempio nell’accademia, sono becchini più o meno amabili. Faticano per immiserire gli studenti al loro livello di stanca indifferenza. Non aprono Delfi, ma la chiudono” (George Steiner, La lezione dei maestri). Spesso i buoni maestri restano anonimi; sono coloro che prestano un libro, accendono una passione, solleticano la curiosità intellettuale, si fermano dopo la lezione per farsi interrogare. Nel giudaismo, la liturgia prevede una benedizione particolare per le famiglie in cui almeno un figlio diventa uno studioso…
Come è possibile stipendiare una vocazione? Questa domanda mi ha turbato per tutta la carriera di insegnante. Sono stato remunerato per leggere il Fedro, spiegare la Guerra dei Trent’anni, parlare di Delitto e castigo: questi per me sono stati privilegi, premi, tocchi di grazia senza pari. Una società che guardasse all'essenza delle cose potrebbe risolvere le necessità materiali dei suoi maestri. Socrate, ironicamente, proponeva una cosa di questo genere ai suoi accusatori: Atene avrebbe compensato commercialmente soltanto i mediocri, quelli che avevano trasformato la loro chiamata in un commercio. I veri maestri avrebbero ricevuto un minimo indispensabile per vivere. Più prosaicamente, il maestro, il pensatore, l'intellettuale vivranno esercitando mestieri slegati dalla loro vocazione: Jacob Boheme faceva scarpe, Baruch Spinoza molava lenti, Charles Sanders Peirce – forse il filosofo più geniale del Nuovo Mondo – a partire dagli anni intorno al 1880 produceva le sue opere colossali, straordinariamente innovative, nell’isolamento e in condizioni di estrema indigenza, Kafka era assicuratore, Sartre un organizzatore culturale e uno scaltro propagandista di se stesso, Albert Camus il giornalista…
Un buon insegnamento è basato sulla memoria. Quante sciocchezze abbiamo ascoltato sull’insegnamento mnemonico! In realtà ciò che sappiamo a memoria dura più a lungo. Quanto più è forte la memoria, tanto più è protetto il nostro sé nella sua completezza. La poesia memorizzata resiste all’occhiuta censura poliziesca. Nei campi di sterminio alcuni rabbini e studiosi del Talmud erano noti per essere libri viventi, le cui parole venivano ascoltate dagli altri prigionieri in cerca di conforto. La cancellazione della memoria dai programmi scolastici è pura idiozia. Distruggere la memoria significa distruggere la propria identità nel tempo. Platone sostiene che la vera conoscenza è reminiscenza. L’alfabetizzazione elettronica, con la sua capacità infinita di accumulo e recupero di informazione non sempre corretta, con le sue orribili banche dati, si schiera contro la memoria. La televisione non può sostituire l'oralità e la gestualità del maestro a diretto contatto col discepolo…
Può esistere ancora oggi, nella società massificata, l’antico rapporto tra discepolo e maestro? Il carisma prestigioso del maestro, la narrazione affascinante sicuramente dureranno ma gli ambiti in cui troveranno spazio saranno sempre più stretti. Sempre più la trasmissione di conoscenza e techne farà leva su altri canali. Nel passato le donne-maestro sono state poche, le discepole invece abbondavano. Questa demografia si sta rovesciando, la femminilizzazione si sta allargando a tutte le materie. Le donne si stanno battendo per il loro legittimo posto al sole.
La mutazione più importante e difficile da definire è quella che riguarda le origini religiose e cultuali del rapporto maestro-discepolo. In origine la lezione del maestro era quella del sacerdote. Queste forme dello spirito furono sottoscritte da una reverenza pressoché indiscussa, lampante. Riverire il proprio maître rispondeva al codice innato e naturale del rapporto. L’età attuale è quella dell’irriverenza. Le cause di questa profonda trasformazione sono dovute a rivoluzioni politiche, a sommosse sociali (la notoria “rivolta delle masse” di José Ortega y Gasset) e allo scetticismo che le scienze portano con sé. L’ammirazione, per non parlare della reverenza, è passata di moda. Siamo assuefatti all’invidia, alla denigrazione e a un livellamento verso il basso. I nostri idoli devono esibire una testa d’argilla. Quando aleggia dell’incenso, va in direzione di atleti, pop star, gli ossessi del denaro o i re del crimine. La celebrità, nel modo in cui satura la nostra esistenza mediatica, è il contrario della fama. Il numero esibito per la milionesima volta sulla maglia dell’asso del football o la pettinatura del cantante sono il contrario dell’apostolato. Sullo stesso piano, la nozione di saggio rasenta il risibile. La coscienza è populista ed egualitaria o finge di esserlo. Qualsiasi manifesto si rivolga ad una élite, o a quell’aristocrazia dell’intelletto così evidente per Max Weber, è quasi prescritto dalla democratizzazione del sistema di consumo di massa (e, pure, questa democratizzazione comporta, senza dubbio, liberazioni, onestà e speranze di prim’ordine). Attraverso tutte le relazioni mondane e laiche, la nota prevalente, spesso tonificante in un modo tipicamente americano, è quella dell’impertinenza provocatoria. “Di fronte a chi si alzano in piedi gli studenti? Scientismo, femminismo, democrazia di massa e i suoi media: può continuare la lezione dei maestri? Credo di sì, anche se avverrà in modi imprevedibili. Libido sciendi, desiderio sfrenato per il sapere, brama per il comprendere, è un motto inciso nelle donne e negli uomini migliori. Tale è pure la vocazione del maestro. Non esiste una professione di maggiore privilegio. Risvegliare in un altro essere umano forze e sogni superiori alle proprie; indurre in altri l’amore per quello che amiamo; fare del proprio intimo presente il loro futuro; è una triplice avventura senza pari. Quando si allarga, la famiglia dei propri studenti somiglia al ramificarsi, al rinverdirsi di un tronco che sta a sua volta invecchiando. Ė una soddisfazione incomparabile quella di essere il servitore, il corriere dell’essenziale, anche sapendo quanto pochi, possano essere i creatori e gli scopritori di prim’ordine. Anche a un livello modesto, come quello di maestro di scuola, insegnare, e insegnare bene, significa essere complici di possibilità trascendenti. Una volta risvegliato, quel bambino esasperante dell’ultima fila potrà scrivere pagine o concepire teoremi che terranno impegnati per secoli. Una società, come quella basata sul profitto sfrenato, che non fa onore ai propri insegnanti, è difettosa.”(Steiner, cit.) Non si tratta di cercare l’insegnante perfetto; ricordiamo che la perfezione è il punto di coincidenza tra quel che possiamo fare, quel che vogliamo fare e quel che dobbiamo fare. Il magistero è fallibile: gelosia, vanità, falsità e tradimento si intromettono inevitabilmente. Educare l’anima significa insegnarle a trasformare in ammirazione la sua invidia. Ricordo che l’ipocrisia non è lo strumento dell’ipocrita ma la sua prigione. Oggi necessitano parole sobrie e carismatiche e invece regna la babele linguistica dei barbari, alla lettera aristotelicamente, coloro che balbettano. Il debole ha bisogno di chiasso, chiacchiera, esistenza inautentica.
Vorrei che fossimo tutti consapevoli che il disagio terribile dei nostri ragazzi non è psicologico, ma culturale. Occorre quindi agire sulla cultura collettiva e non sul disagio individuale, perché la sofferenza non è la causa, ma l’effetto dell’implosione di cui i giovani, parcheggiati in scuole e università, sono vittime…
Un buon maestro allontana dai giovani il rifiuto del futuro e il fascino diabolico delle passioni tristi. Il maestro ha come tensione della propria vita la cura dei giovani. A salvare un ragazzo basta l’incontro di un maestro carismatico. Il disinteresse emotivo del cattivo insegnante viene trasmesso al ragazzo e lo uccide. I nostri giovani sopravvivono male nella terra di nessuno dove la famiglia non svolge alcuna funzione e la scuola annoia. I docenti non devono interrompere la comunicazione con i giovani, qualsiasi tipo di comunicazione, altrimenti li perdono. Non possono essere neutri perché l’uomo chiama neutro ciò che vuole imporre senza confessarne i motivi. Occorre riflettere, prima di abbandonare i giovani, su quanta educazione emotiva si è loro dispensata, perché essi intuiscono che l’intelligenza e l’apprendimento non funzionano se non vengono nutriti dal cuore. L’intelligenza senza cuore è l’origine del male. Il cuore non è il languido oppositore della ragione, come sosteneva l’arido Cartesio, bensì la forza della ragione, il suo alimento. Insomma i docenti dovrebbero essere spinoziani e non cartesiani, dovrebbero riportare all’unità ragione e sentimento. L’anima è il compito dell’uomo. Il vero aristocratico è colui che ha una vita interiore, indipendentemente dalla sua origine, dal rango o dal patrimonio…
Occorre fare i conti anche col cambiamento di paradigma in corso. Non ne scorgiamo le coordinate dal momento che siamo parte in causa. La scuola è al centro di questa grande trasformazione e gli insegnanti sono in prima linea.
Secondo i postmoderni, la modernità, ovvero il periodo caratterizzato dal pensiero che va da Cartesio a Nietzsche, si distingue per la tendenza a credere in visioni onnicomprensive del mondo quali idealismo e marxismo, a riflettere in termini di novità e superamento, ossia a identificare nuovo con migliore e trascorso con superato. Convincimento che origina la moda (stessa radice di moderno). La storia viene pensata come emancipazione o percorso progressivo di cui gli studiosi conoscono i fini – libertà e democrazia sopra gli altri - e i mezzi atti alla loro realizzazione, ossia ragione, rivoluzione, tecno-scienza. Inoltre l’uomo viene pensato come dominatore della natura con conseguente esaltazione della scienza di derivazione cartesiana.
A tutto ciò i postmoderni contrappongono la scarsa fiducia nei macrosaperi onnicomprensivi e legittimanti e propongono forme deboli di razionalità, fondate sull’assioma dell’inesistenza di fondamenti ultimi del sapere. Questa sfiducia si attua nel commiato dalla cultura di riferimento degli anni settanta, nella negazione della categoria hegeliana di superamento e nella rinuncia a pensare la storia come processo universale e necessario, capace di assicurare all’umanità emancipazione e progresso. Insomma viene negato tutto ciò che si presenta come salvifico, ultimo, teleologico, escatologico.
La condizione postmoderna è simile a quella dell’uomo primitivo raccoglitore di frutti, una sorta di nomadismo culturale; con la differenza che ciò che l’uomo raccoglie non sono opere della natura, ma della cultura (testi, informazione, messaggi) grazie a Internet. Il postmoderno più che a identificare un’epoca serve a identificare una categoria dello spirito, un Kunstwollen, un modo di operare. Ogni epoca ha il proprio postmoderno, come il Barocco ha avuto il Manierismo, tanto che postmoderno potrebbe essere il nome moderno del Manierismo come categoria metastorica.
In definitiva il postmoderno risulta strettamente connesso a una serie di trasformazioni storiche e sociali. Infatti, alle spalle della sua contestazione del moderno troviamo i conflitti mondiali, gli orrori dei campi di concentramento nazisti e stalinisti, le crisi del capitalismo, l’uso della bomba atomica, il catastrofismo ecologico. In una parola la fine della fiducia nel progresso. Forse si tratta di riscrivere la storia: non prima e dopo la nascita di Cristo, ma prima e dopo Auschwitz, dove si intende per Auschwitz il crimine simbolo della modernità.
Lyotard in La condizione postmoderna – una ricerca commissionata dal governo canadese – associa il postmoderno all’avvento delle società industriali avanzate e informatizzate. Egli studia la condizione del sapere nelle società sviluppate dove la modernità risulta caratterizzata da una serie di sintesi filosofico-politiche che Lyotard chiama grandi narrazioni, favole per adulti, metaracconti. Esse sono l’Illuminismo, l’Idealismo tedesco, il Marxismo, il Cristianesimo e il Capitalismo: schematizzando possiamo considerare postmoderna l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni. Questi metaracconti vengono delegittimati, negli ultimi cinquant’anni, da Auschwitz, dalle crisi del capitalismo e del comunismo, dalla perdita di consenso della Chiesa e, soprattutto, dalla consapevolezza del fallimento, sul piano etico, della filosofia kantiana. Del resto già Kant a suo tempo aveva messo in risalto il legno storto dell’uomo. Proprio Kant viene comunque visto da Lyotard come filosofo dell’eterogeneità e teorico del sublime, ossia dell’impossibilità di raccontare la totalità e quindi come vero maestro del proprio modello di razionalità plurale. In sintesi il postmoderno liquida i progetti escatologici, teleologici, finalistici. Di fatto un paradigma culturale che durava da cinque secoli, quello umanistico nato nel Quattrocento, è entrato in crisi. Le ripercussioni sulla scuola sono ovvie. Facciamo un esempio: il modello culturale nel quale sono cresciuto a metà degli anni settanta era comunque quello classico. Pur provenendo da una famiglia di minatori dell'ennese consideravo una fortuna poter studiare Dante, Platone e Carlo V; studiare per me significava rivolgersi al bello e al buono. Poi, pian piano, abbiamo scoperto che anche qualche nazista e qualche stalinista (forse meno) ascoltava la musica colta e leggeva i classici ma tutto ciò non gli impediva di mettere in pratica lo sterminio. Eichmann ascoltava le sinfonie di Schubert. Maximilian Aue, il colto nazista protagonista delle Benevole di Jonathan Littell ci dice che non ci sono azioni che un gruppo di individui abbia commesso che altri uomini prima o poi non possano ripetere. Come a dire che la storia, nella sua saggezza, è più efficace nell'impartire lezioni di perversità che di misericordia. Allora la Storia non è magistra vitae? Assolutamente no, ma va studiata ugualmente. Anzi potremmo dire che la crisi della scuola italiana dipende molto dalla crisi dell'insegnamento della storia. Certo la storia intesa come la intendeva Marc Bloch. Nella furia iconoclasta di distruggere la classicità in nome di un non meglio imprecisato tecnicismo, si è sempre più penalizzata la storia. Analogo destino per la filosofia.
Tento di spiegarmi meglio. Parto dall'assioma che la sintassi esistenziale vada imparata a scuola tra i tredici e i venti anni (prima si dovrebbero imparare la grammatica, la tecnica e i fondamentali, divertendosi, giocando) e tale sintassi può essere acquisita soltanto con la solitudine che consente di leggere i classici e di studiare storia e filosofia. E le scienze? Vanno bene anche quelle ma in modo specialistico possono essere studiate soltanto all'università, mentre la lettura di Balzac o lo studio di Spinoza riguardano gli anni del liceo. Occorre un buon maestro, un animo fine e delicato, una certa sensibilità. Imparare la storia aiuta ad affrontare senza pregiudizi il nostro prossimo, ad essere meno giudicanti e più comprensivi, a valutare la gravità delle situazioni. L'essere si intuisce attraverso la filosofia, il divenire grazie alla storia. Un buon insegnante di storia e filosofia dovrebbe immediatamente trasmettere questa semplice verità. Perché il liceo classico è ancora oggi, sulla carta, la scuola migliore? Perché assomiglia ad un cilindro molto profondo con una base piccola. Voglio dire che si studiano poche materie, ma in profondità. Il paradosso consiste in questo: il liceo classico è la scuola più semplice, nella quale si corre meno il rischio di venire bocciati, mentre i professionali, dove per vari motivi si trovano anche quindici materie (tutte sviluppate in superficie) il rischio bocciatura per i ragazzi più deboli è molto più alto.
Torniamo agli insegnanti di storia. Il professor Francesco Cataluccio, autentico esempio per noi studenti della facoltà di Storia a metà degli anni settanta, chiedeva agli esami tutta la parte nozionistica indispensabile per studiare la storia del novecento. Dovevi sapere anche i giorni e i luoghi dei trattati di pace della prima guerra mondiale, i nomi dei ministri e dei regnanti. Poi passava al ragionamento storico vero e proprio. Se tutto andava bene e gli facevi una buona impressione ti chiedeva la conferenza di Bandung, segno evidente che ti avvicinavi al trenta e lode. In rari casi si metteva a discettare della superiorità del metodo sul WM (era juventino come tutti i siciliani e amava il calcio vero, quello di Matthias Sindelar e di Stanley Matthews), chiaro segno di benedizione. E se proprio ti accoglieva tra i suoi, agognato trionfo, ti suggeriva questo:- sei bravo e puoi andare ad insegnare, quindi ricordati che chi conosce la storia la racconta, chi non la conosce fa didattica della storia. Per raccontare la storia bisogna leggere molto, studiare continuamente, amarla profondamente. Bisogna leggere Marc Bloch, Johan Huizinga, Fernand Braudel, Corrado Barbagallo. Cosa si deve insegnare a scuola? Ciò che è compreso in un buon manuale di storia liceale come il Gaeta-Villani di trent'anni fa. La storia è una cosa seria e non gli sproloqui che si trovano su immondi centoni circolanti oggi nelle scuole, dove in nome del relativismo culturale si scrivono cretinate prive di senso. Il nozionismo è indispensabile. Come si fa ad imparare l'età napoleonica senza conoscere Wagram, Lipsia e Austerlitz. Qualcuno potrebbe studiare il latino senza conoscere i paradigmi dei verbi?…
Una mia vecchia idea è che la storia si capisca meglio dalla lettura dei grandi romanzi come Guerra e pace o Il rosso e il nero piuttosto che dalla manualistica sic et simpliciter. Spieghiamo meglio: il buon maestro prima narra i fatti storici e cerca di proiettare con l'immaginazione gli allievi in quel periodo storico (bisogna ricostruire mentalmente un ambiente, evocare i morti, sentire la presenza di Carlomagno piuttosto che di Danton), poi occorre che gli studenti... studino il manuale (è troppo?), infine la lettura dei grandi romanzieri. Infatti la storia o è romantica o non è. La storia non ha utilità pratica immediata, non è maestra di vita, ma è indispensabile per imparare a vivere. Chi non conosce e non ama la storia non vive, sopravvive. E' uno zombie, un morto che cammina. Oggi poi possediamo il mezzo per far resuscitare i morti, far rivivere Napoleone e i contadini russi, Costantino e i vescovi di Nicea, Marco Aurelio e i senatori romani: il mito della caverna si è realizzato, l'immagine cinematografica porta davanti ai nostri occhi non la realtà vera, che per noi non è mai esistita, ma una realtà culturale, artificiale, costruita sulle nostre proiezioni mentali e quindi... vera. L'importante è essere coscienti dell'operazione. Sono più veri Renzo e Lucia dei personaggi esistiti veramente nel Seicento; hanno più vita i manzoniani Riciliù e Conte-Duca dei veri Richelieu e Olivares. L'emozione che dà la lettura di un saggio storico come La Spagna imperiale di John H. Elliot o La guerra dei trent'anni di Cicely Veronica Wedgwood dipende dalla capacità narrativa degli autori. Non parliamo dei Tre moschettieri di Alexander Dumas: Aramis è più vero della realtà. E a chi importa se Dumas commette diversi errori storici (forse lo fa apposta). Lui si occupa di verosimile. Attraverso quel verosimile si comprende la storia, il suo fascino, la sua terribile potenza evocativa. Guai ai popoli senza memoria storica e senza capacità di produrre mitologia…
Da giovane ebbi la fortuna di leggere L'autunno del Medio Evo di Johan Huizinga, un bellissimo e triste affresco della società borgognona del Quattrocento che volgeva al tramonto. Quando giunge la tristezza autunnale ci si può permettere di essere più generosi. Oggi che anche la mia esistenza volge al tramonto cerco di offrire ciò che ho imparato a quanti hanno fiducia in me. Piccole cose, poca roba, de minimis. Questo ho e questo offro in mezzo a sbagli e a scarse certezze. Forse è giusto così. L'intellettuale medievale rispondeva a Dio, l'intellettuale del mondo moderno risponde soltanto alla propria coscienza perché purtroppo Dio è morto, Marx è morto e... io stesso mi sento poco bene!…
Si racconta che Cavour per imbrigliare i lavori parlamentari del regno sabaudo lanciasse ogni tanto una proposta di legge sulla scuola, così da creare chiacchiere interminabili e stornare l’attenzione dai problemi più pressanti. Oggi dovremmo rovesciare questa impostazione: dalla rinascita della scuola è necessario che rampollino la rinascita dei cittadini e di una classe politica onesta, sobria e rispettosa dei diritti di tutti. Sono un uomo di scuola e sono pronto a discutere di scuola con chiunque e in tutte le sedi opportune. Su una partita così importante non possiamo continuare ad innalzare steccati tra opposte fazioni. A quanti pensano che la mia sia una posizione ingenua rispondo fin d’ora che è vero, infatti ingenuo significa nato libero. La mia è comunque una posizione rivolta alla Speranza: “L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono”. (Ernst Bloch, Il principio Speranza, Premessa)
Queste brevi note sono tratte da un mio libro di molti anni fa “La scuola negata”. Spero servano da spunto di riflessione per qualcuno. Astenersi soggetti inutilmente polemici per natura. Grazie.

IL DIRIGENTE SCOLASTICO

Prof. Nicolò Scialfa